La stanza del figlio

“La Stanza del Figlio”, film apparentemente semplice, dalla trama esplicita e lineare, rivela in realtà una varietà di significati che rimanda direttamente al cuore della psicoanalisi. Nanni Moretti infatti, sin dal titolo dichiaratamente metaforico, evoca il mondo psicoanalitico in tutta la sua complessità e contraddittorietà: un universo ambivalente in cui la figura dell’analista racchiude in sé elementi al tempo stesso di forza e di debolezza, di tenuta e di tracollo. Sullo psicoanalista Giovanni infatti si possono dare giudizi antitetici: che capisce o che non capisce i suoi pazienti; che risponde loro correttamente o che è imprigionato in un gioco di automatismi fatto di frasi di rito senza alcun effetto terapeutico; che mantiene un giusto distacco o che si affida ad un metodo come ultima risorsa difensiva. E altrettanto si può dire del destino della psicoanalisi che oscilla tra il suo connaturato stare tra vita e morte e la sua morte imminente da più parti annunciata.

Anche il “transfert negativo” – cioè i sentimenti di rabbia e disistima nei confronti del terapeuta – espresso nel film da quasi tutti i pazienti, non è di per sé segno di una cattiva psicoterapia, così come il “transfert positivo”, cioè sentimenti di ammirazione e di idealizzazione dello psicoanalista, non è necessariamente indice di una buona psicoterapia. Resta però il problema di come definire lo psicoanalista e la sua funzione, una questione spinosa che ha prodotto infinite teorie, correlate con gli orientamenti delle diverse scuole psicoanalitiche. Il suo ruolo infatti non è inscrivibile nei dettami di una cura-tipo. E’ piuttosto un’etica dell’ascolto in netto contrasto sia con lo scientismo oggi dominante, interamente rivolto alla tecnica e alla misurazione, sia con la confessione religiosa, che mai si dissocia da un ideale di normalità e conseguentemente dall’assoluzione o dalla condanna di certi comportamenti: un ascolto problematico e ristretto ad un ambito specifico dunque, che lo psicoanalista britannico Wilfred Bion ha definito “senza memora e senza desiderio”, volendo con ciò indicare un’apertura mentale totale verso il paziente e l’ignoto relativo al suo incontro nelle sedute.